
Riccioli d’Oro: simbologia esoterica e letture iniziatiche di una fiaba moderna
Riccioli d’Oro: simbologia esoterica e letture iniziatiche di una fiaba moderna
di Hasan Andrea Abou Saida
La fiaba di Riccioli d’Oro e i Tre Orsi ha un’origine relativamente recente rispetto ad altre narrazioni che affondano le radici nell’antichità. La sua prima versione nota risale al 1837, quando Robert Southey, poeta e intellettuale inglese, la incluse nella sua raccolta The Doctor. Curiosamente, in quella forma originaria non compare una bambina dai capelli dorati, ma una vecchia irriverente che entra nella casa dei tre orsi.
Con il tempo, la figura della donna anziana venne sostituita da una fanciulla giovane e attraente, trasformando la narrazione da una satira sui vizi degli adulti a una fiaba rivolta ai bambini. Questa metamorfosi del personaggio centrale è significativa, perché riflette il modo in cui le fiabe si adattano ai mutamenti culturali e sociali: dal monito morale per gli adulti all’insegnamento pedagogico per i più piccoli.
«I bambini tendono a identificarsi molto più con gli orsi ordinati e rispettosi delle regole domestiche che con l’intruso umano ribelle e indisciplinato.»
— Elms, Uncovering Lives (1994, p. 87)
La versione che conosciamo oggi — con Goldilocks (Riccioli d’Oro) — si consolidò tra XIX e XX secolo, accompagnata da illustrazioni di artisti come John D. Batten (1890), che contribuirono a fissarne l’immaginario. Prima di assumere la forma che conosciamo oggi, la fiaba dei Tre Orsi fu narrata in versioni molto differenti, dove la protagonista non era una graziosa fanciulla, bensì figure marginali o animalesche, più vicine al mondo delle tradizioni popolari orali.

La prima traccia scritta si trova nel manoscritto di Eleanor Mure del 1831, un libro illustrato creato come dono privato per un bambino della sua famiglia. Qui, l’intrusa che penetra nella casa degli orsi non è una bambina, ma una vecchia donna scostante. Non solo ruba e mangia, ma è descritta come polemica, scontrosa e incapace di autocontrollo. La sua fine è terribile: catturata dagli orsi, viene punita con morte cruenta, impalata sulla guglia della cattedrale di St. Paul a Londra. Un epilogo che richiama le antiche fiabe popolari, dove la violenza aveva una funzione punitiva ed esemplare (simile alla matrigna di Biancaneve costretta a danzare con scarpe di ferro rovente).
«La storia dei tre orsi esisteva molto prima che Southey la mettesse per iscritto. La tradizione orale tramandava versioni in cui un animale, come una volpe, ricopriva il ruolo dell’intruso.»
— Opie & Opie, Le fiabe classiche (1974, p. 45)
Accanto a questa figura femminile si sviluppa anche un’altra variante: quella di Scrapefoot, una volpe. Secondo ricerche folkloriche, già quarant’anni prima della celebre illustrazione di John D. Batten (1890) circolava un racconto orale, trascritto in parte in Scozia e in Inghilterra, in cui l’intruso non era umano ma appunto una volpe. Il nome Scrapefoot significa letteralmente “zampetta raschiante”, un epiteto che sottolinea la furbizia e la capacità dell’animale di insinuarsi nelle case.
Il racconto di Scrapefoot conserva la stessa struttura che in seguito diventerà canonica: l’animale assaggia i tre porridge, prova le tre sedie, si sdraia nei tre letti. Tuttavia, invece di scappare alla fine, la volpe viene catturata e punita dagli orsi, in linea con la mentalità punitiva delle fiabe arcaiche.

Queste versioni mostrano come la fiaba fosse originariamente più cupa e meno “moralizzata” rispetto a quella resa popolare da Robert Southey nel 1837. Southey elimina la crudezza della morte della vecchia e sostituisce la protagonista con una figura ambigua: non più la strega o la bestia furba, ma un personaggio umano che poteva variare da donna anziana a bambina. Solo nella seconda metà dell’Ottocento la bambina dai capelli d’oro diventa la versione definitiva, grazie all’influenza vittoriana che tendeva a edulcorare i racconti, trasformandoli in storie adatte all’infanzia borghese.
La storia narra di una bambina curiosa, chiamata Riccioli d’Oro, che si addentra nel bosco e trova una casetta che appartiene a tre orsi: Papà Orso, Mamma Orsa e Orsetto. Entrata senza permesso, assaggia i loro porridge: quello di Papà è troppo caldo, quello di Mamma troppo freddo, quello di Orsetto “giusto” e lo mangia tutto. Poi prova le tre sedie: troppo grande quella di Papà, troppo morbida quella di Mamma, perfetta quella di Orsetto, che però finisce per rompere. Infine si sdraia nei letti: troppo duro quello di Papà, troppo molle quello di Mamma, giusto quello di Orsetto, dove si addormenta. Quando i tre orsi tornano a casa, scoprono i segni della sua presenza e trovano Riccioli d’Oro nel letto del piccolo. La bambina, spaventata, si sveglia e scappa via dal bosco, tra le urla e lo stupore degli orsi.
«In passato, la storia non era tanto una ricerca di ciò che è “giusto”, quanto un ammonimento contro i pericoli dell’intrusione, della violazione della proprietà altrui e della mancanza di autocontrollo.»
— Tatar, Fiabe classiche annotate (2002, p. 123)
Uno degli elementi fondamentali della fiaba è la ripetizione ternaria: tre orsi, tre sedie, tre zuppe, tre letti. Questa struttura non solo affascina i bambini, ma funge da dispositivo mnemonico e rituale. Come osserva Maria Tatar in The Annotated Classic Fairy Tales (2002), la storia è una “favola ammonitrice” che insegna ai bambini i pericoli dell’intrusione e l’importanza del rispetto per gli spazi e le proprietà altrui. Proprio come nei Tre Porcellini, il ritmo delle ripetizioni sottolinea la lezione morale, rinforzando concetti di sicurezza e protezione. Tatar aggiunge che mentre oggi la storia viene spesso interpretata come la ricerca del “giusto equilibrio” — la zuppa non troppo calda, non troppo fredda, ma “proprio giusta” — nelle letture ottocentesche Riccioli d’Oro era vista come un’intrusa che mancava di autocontrollo e di rispetto.
Il numero tre, ricorrente in questa fiaba come in molte altre ben più antiche, possiede una forte valenza simbolica ed esoterica. È il numero dell’armonia, dell’equilibrio, del passaggio tra gli opposti. L’eroe (o in questo caso l’eroina) si confronta con tre prove, e solo l’ultima rappresenta la via dell’adeguatezza. Questa logica tripartita è il cuore del racconto: Riccioli d’Oro sperimenta e sbaglia due volte, trovando equilibrio solo al terzo tentativo. L’insegnamento implicito è che la misura giusta si conquista per gradi, con errori e correzioni. In termini iniziatici, è il percorso della prova e dell’apprendimento graduale.

La fiaba, nella sua versione originale, si rifà ad una struttura e motivi tipici delle tradizioni irlandesi e scozzesi di epoca celtica. Oltre al tema della triplicità – tre animali, tre pappe, tre sedie e tre letti – il racconto trova il suo parallelo con la fiaba irlandese “La casa di ospitalità nel bosco” (raccolta da Jeremiah Curtin), dove l’eroe si imbatte in una dimora solitaria, già imbandita con cibo e letti, appartenente a esseri soprannaturali: chi osa nutrirsi di quel cibo entra in relazione con un altro mondo e rischia di rimanervi prigioniero. Nei racconti irlandesi e scozzesi, infatti, ricorre spesso la dimora appartata, situata ai margini del villaggio o nel profondo del bosco, che in realtà rappresenta una porta d’accesso al Síd, il mondo fatato. Al suo interno l’eroe trova cibi già pronti, bevande servite o letti ordinati: un’accoglienza ingannevole che cela un tabù. Nel folklore celtico, infatti, il gesto di nutrirsi di quel cibo non è mai neutro: chi mangia nel regno delle fate o accetta ospitalità dagli esseri del Síd rimane vincolato a loro, rischiando di perdere il ritorno al proprio mondo. Questo motivo narrativo è ben attestato, ad esempio, nelle leggende di Oisín, condotto da Niamh nel Tír na nÓg, dove l’eroe banchetta senza accorgersi che il tempo terreno sta correndo inesorabile.
Un ulteriore legame con il mondo celtico si ritrova nella scelta dell’orso come protagonista della fiaba. Nell’Europa celtica l’orso non era soltanto un animale del bosco, ma una creatura totemica e sacra, connessa sia al mondo divino che a quello guerriero. Le testimonianze archeologiche e letterarie ricordano la dea Artio, venerata in Gallia e raffigurata spesso accanto a un orso: il suo nome deriva dalla radice artos (“orso”), la stessa che si ritrova nel leggendario re Arthur, interpretabile come “uomo-orso” o “colui che porta la forza dell’orso”. Questo animale rappresentava la protezione della comunità, la ciclicità delle stagioni (per via del letargo) e il passaggio tra la vita e la morte, essendo legato ai riti di rinascita e iniziazione.
Nel racconto di Riccioli d’Oro, i tre orsi non sono semplici animali antropomorfizzati, ma si possono leggere come custodi di un confine sacro: incarnano il totem che presidia la soglia tra il mondo ordinario e quello altro, vietando a chi non è pronto di appropriarsi dei loro beni. La loro casa nel bosco non è soltanto un’abitazione fiabesca, ma un luogo sacro e protetto dagli spiriti, in cui il cibo e i letti appartengono all’Atro Mondo.
“Nella tradizione celtica l’orso è animale solare e guerriero, simbolo di forza e di rinascita ciclica, legato a divinità come Artio e alla regalità sacra che si riflette anche nel nome di Artù, derivato dal termine artos, orso.”
(Cattabiani, 1994, p. 93)
La scena di Riccioli d’Oro che assaggia le tre pappe appare come una forma attenuata di questo antico tabù: la bambina, senza rendersene conto, compie l’atto sacrale e pericoloso di appropriarsi del nutrimento “altro”, non suo, violando il confine fra il mondo umano e quello animale-totemico. L’ingresso nella casa degli orsi, così, può essere letto come un viaggio iniziatico rovesciato, in cui l’intrusione e l’assaggio non portano a un’alleanza con il mondo sovrannaturale, ma a una fuga precipitosa: residuo fiabesco di una regola più antica, che avvertiva il viandante di non lasciarsi sedurre dalle offerte dell’Altro Mondo.
Il fascino della fiaba non è sfuggito agli psicoanalisti. Bruno Bettelheim, nel celebre The Uses of Enchantment (1976), descrive Riccioli d’Oro come “povera, bella e affascinante”, e interpreta il racconto come un’allegoria delle difficoltà edipiche e adolescenziali. Secondo Bettelheim, la fiaba non porta il bambino a una vera maturazione psicologica: non c’è la promessa di felicità futura come in Cenerentola, ma piuttosto un’interruzione, quasi un arresto del processo di crescita.
Questa lettura fu criticata da Maria Tatar, che la giudicò eccessivamente strumentale: trasformare le fiabe in mere allegorie edipiche rischia di ridurne la complessità. Secondo Tatar, più che ai conflitti familiari, la storia invita i bambini a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni e sull’importanza del rispetto.
Un’altra prospettiva fu proposta da Alan C. Elms (Handbook of Psychobiography), che rifiuta la lettura post-edipica e suggerisce invece una chiave analitica pre-edipica, legata al tema dell’ordine e della pulizia. Secondo Elms, i bambini piccoli si identificano più facilmente con gli orsi ordinati e rispettosi della casa che con la figura umana trasgressiva e disordinata. Questa interpretazione mette in luce la funzione educativa della fiaba nel formare il senso di ordine e responsabilità.
«Le scodelle, le sedie e i letti degli orsi diventarono oggetti attraverso i quali si sottolineava l’ordine morale della domesticità e il rispetto per la proprietà.»
— Zipes, The Oxford Companion to Fairy Tales (2000, p. 157; trad. it. mia)
I capelli dorati della protagonista, costantemente descritti in chiave positiva, la avvicinano all’archetipo della fanciulla solare, della figura aurea che porta con sé tanto la vitalità quanto il rischio dell’eccesso. Non è un caso che la sua bellezza e leggerezza siano contrapposte alla rude concretezza degli orsi, emblema della natura e della forza primitiva. La trasformazione di Riccioli d’Oro da racconto satirico per adulti a fiaba educativa per bambini mostra il potere delle narrazioni di adattarsi ai bisogni delle comunità. Nel contesto vittoriano, segnato da rigidi codici morali, la storia venne utilizzata per insegnare obbedienza e rispetto delle regole domestiche.
Oggi, in un mondo in cui i confini tra privato e pubblico si sono fatti più fluidi, il messaggio della fiaba sembra assumere una valenza diversa: non più soltanto il rispetto della proprietà, ma la ricerca di un equilibrio personale, il “giusto mezzo” che ogni individuo deve scoprire per sé.
Riccioli d’Oro e i Tre Orsi non è semplicemente un racconto per l’infanzia, ma un microcosmo narrativo che affronta i temi universali della trasgressione, della ricerca dell’equilibrio e della costruzione dell’identità. La sua forza sta nella molteplicità delle interpretazioni: morale, educativa, psicoanalitica e simbolica. Se osservata alla luce delle antiche tradizioni celtiche, la fiaba rivela inoltre un sostrato più arcaico: la casa nel bosco come soglia verso il mondo fatato, il tabù del cibo che lega all’Altro Mondo, l’orso come animale totemico e custode del confine sacro. In questa prospettiva, Riccioli d’Oro non è soltanto una bambina curiosa, ma una figura che, come gli eroi delle leggende irlandesi e scozzesi, varca inconsapevolmente il limite fra umano e sovrannaturale, sperimentando il rischio dell’intrusione e della profanazione. Così, la fiaba continua a parlare non solo ai bambini e agli adulti di oggi, ma anche alle memorie più antiche dell’immaginario europeo, restituendo la sua funzione originaria di ponte tra il quotidiano e il sacro, tra il visibile e l’invisibile.
Bibliografia
Bettelheim, B. (1976). The uses of enchantment: The meaning and importance of fairy tales. New York: Alfred A. Knopf.
Cattabiani, A. (1994). Planetario. Simboli, miti e misteri di astri, pianeti e costellazioni. Milano: Mondadori.
Curtin, J. (1890). Myths and folk-lore of Ireland. London: S. Low, Marston, Searle & Rivington.
Elms, A. C. (1994). Uncovering lives: The uneasy alliance of biography and psychology. New York: Oxford University Press.
Mure, E. (1831). The story of the three bears. Manoscritto illustrato, British Library.
Opie, I., & Opie, P. (1974). The classic fairy tales. London: Oxford University Press.
Southey, R. (1837). The story of the three bears. In The Doctor (Vol. IV). London: Longman, Rees, Orme, Brown, Green & Longman.
Tatar, M. (2002). The annotated classic fairy tales. New York: W. W. Norton & Company.
Uther, H.-J. (2004). The types of international folktales: A classification and bibliography (Vol. 1–3). Helsinki: Academia Scientiarum Fennica.
Von Batten, J. D. (1890). Illustrazione di The Story of the Three Bears. In English Fairy Tales, a cura di J. Jacobs. London: David Nutt.
Zipes, J. (2000). The Oxford companion to fairy tales. Oxford: Oxford University Press.
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